I rapporti Nielsen segnalano da diversi mesi come il mercato degli investimenti pubblicitari in Italia sia in negativo. Così non soprende come questo articolo su www.ilmessaggero.it evidenzi come nei primi 7 mesi del 2019, la media totale abbia raggiunto un -1,3%. Tuttavia, nonostante le pubblicità in Italia cerchino di essere in media più semplici rispetto a quello che avviene in altri Paesi, in modo da rendere facilmente comprensibili, non è poi così raro vedere accostamenti con il mondo dell’arte e della letteratura, verso le quali gli italiani rispondono decisamente meglio.
Anche se in molti vedono negli spot soltanto un’inutile seccatura, quello tra arte e pubblicità è un connubio di successo. Quando i messaggi pubblicitari sono realizzati con intelligenza e buon gusto finiscono di essere semplici consigli per gli acquisti ed assurgono allo stato di opera creativa. Anche se esistono ancora parecchi tabù al riguardo cerchiamo di capire insieme come e perché anche la pubblicità possa essere considerata una forma d’arte.
Un rapporto simbiotico
Quello tra arte e pubblicità deve in qualche modo essere ritenuto un rapporto simbiotico. A prescindere dal fatto che ci si riferisca alla pittura, alla scultura, alla fotografia, al cinema o ad altro, un artista del nostro secolo può giungere alle grandi masse sfruttando gli attuali mezzi di comunicazione collettiva, i media su tutti.
Se un tempo l’élite intellettuale della società frequentava salotti e mostre d’arte ed influenzava con i suoi colti punti di vista le tendenze stilistiche dell’epoca, oggi tutti noi abbiamo voce in capitolo e tutti noi, più o meno consapevolmente e coscientemente, possiamo determinare il corso dell’arte. Il pittore, lo scultore, il fotografo o il regista entrano allora in sodalizio con il mondo della pubblicità, mondo a cui tutti volenti o nolenti abbiamo accesso. La speranza è quella di far così conoscere sé stessi e le proprie opere.
A questo punto però è necessario aprire una piccola parentesi. Non tutti gli artisti sono disposti al compromesso, nemmeno in questo mondo dominato dai social e dai media. Per alcuni l’arte è un privilegio concesso a pochi e nessuno può svenderla. Ecco: in questi casi il ricorso alla pubblicità come mezzo di comunicazione con le masse viene bandito. Meglio rimanere insomma nella propria nicchia e farsi strada tramite mostre d’arte.
Quando gli artisti decidono di stringere un sodalizio con il mondo della pubblicità devono chiaramente intervenire sulla loro poetica e sui messaggi veicolati. Da qui la necessità di una ricodificazione del loro linguaggio, di una semplificazione semantica e di un sostanziale adeguamento ad una forma popolare di cultura. E da qui, dovremmo aggiungere, la reticenza di alcuni ad accomunare arte e pubblicità.
L’arte per l’arte
Una concezione classica dell’arte vorrebbe che essa non avesse fini materialistici o utilitaristici. Insomma, per quanto spesso assoggettati al volere di committenti e mecenati, difficilmente Leonardo o Michelangelo avrebbero visto di buon occhio l’idea di associare un loro dipinto all’etichetta di un sugo pronto. Altrettanto difficilmente Caravaggio avrebbe accettato di moderare la sua indole ribelle e rivoluzionaria per meglio pubblicizzare una confezione di surgelati. L’arte, almeno sino ad una certa fase storica, è un mezzo espressivo e culturale, qualcosa che serve a narrare, anche agli analfabeti, vicende storiche, mitologiche o religiose. Essa deve scuotere i sensi, risultare profondamente armonica, trasmettere un’idea percepibile, a seconda delle proprie disposizioni d’animo e della propria competenza in materia, con la mente, con il cuore e con i sensi.
La pubblicità invece presuppone il passaggio di un messaggio univoco. Quel determinato marchio di vestiti ci fa apparire belli e ribelli ed è adatto a chiunque si senta giovane e di tendenza. La Gioconda invece può intrigarci per lo sguardo ambiguo e sibillino, ammaliarci per via dei tanti misteri che si celano dietro a questa tela, sorprenderci per la resa ottenuta da Leonardo. Qualcuno dirà che si tratta di un’opera di livello, altri non ne capiranno il valore, altri ancora la giudicheranno il capolavoro indiscusso del geniale fiorentino, qualcuno dirà che c’è di meglio. Insomma: addio univocità di interpretazione e di messaggio.
L’epoca moderna
L’epoca moderna ha in tal senso abbandonato molti tabù. L’arte sembra quasi aver assunto una forma liquida, dover sopravvivere insinuandosi su internet o in TV. La pubblicità ed il fine utilitaristico così non fanno più paura a geni del calibro di Andy Warhol che trovano il modo di comunicare e giocare con le masse pur sottendendo nelle loro opere d’arte dei messaggi critici. Lo stesso ha pensato di fare Wes Anderson, Paolo Sorrentino oppure ancora David Lynch.
La creatività in questa fase storica serve ad elaborare un messaggio comprensibile alle masse che, rispetto ai secoli passati, hanno comunque innalzato il loro livello di istruzione ed hanno i mezzi per indagare su quanto stuzzichi la loro fantasia. Poi c’è la provocazione. Un esempio? Il messaggio di Obey con la campagna Andre The Giant lo è in pieno, perché l’immagine di Andre The Giant non significa niente e come scrive Deodato Arte nella pagina dedicata alle opere di Obey: “Il pubblico si accorge dello sticker di Obey solo quando lo vede ovunque.” Non significherà niente ma Andre the Giant porta a riflettere sulla pubblicità e sulla sua comunicazione nella società.
In fondo in fondo l’artista contemporaneo sa che la sua missione è quella di produrre qualcosa di bello, che il mecenate di ieri è la grande società capitalista di oggi e che se un tempo si preferiva raccontare le vicende di grandi eroi, condottieri e figure religiose o mitiche, adesso le masse vogliono sentir parlare di qualcosa di più vicino e tangibile. Cambia insomma il registro semantico, cambia l’ideale espressivo e cambia la visione dell’arte da parte degli stessi artisti. A noi però viene dato il ruolo che un tempo fu di una ristretta nicchia di intellettuali: decidere ciò che ci piace e dirigere i canoni stilistici della nostra società in un direzione anziché in un’altra.